“Dicono che l’ora più buia sia quella che precede il sorgere del sole. Allora perchè oggi l’alba è nera come un lenzuolo intriso di incubi?
I fantasmi della mente sono i più pericolosi. Paura, pazzia, desiderio di vendetta, rabbia repressa, odio. Contro quali fantasmi combatti, Anita?
E se i tuoi dipinti non fossero partoriti dalla fantasia ma rappresentazioni della follia omicida che scorre dentro di te?
Qualsiasi sia la risposta, sono qui per conoscere la verità. Voglio guardarti negli occhi, Anita Novak, e capire chi sei veramente.”
Immaginate di essere un pittore o una pittrice. Immaginate che un incidente vi privi della mano destra, che è quella che usate per dipingere. Immaginate che un giorno la vostra mano sinistra cominci a creare, ma i dipinti siano molto diversi da prima: mentre un tempo dipingevate la vita, ora dipingete la morte.
E immaginate che un giorno una modella venga uccisa nello stesso modo che compare in una vostra tela e che le impronte trovate sulla scena del crimine siano le vostre. Ma non quelle della mano sinistra.
Quelle della mano destra. La mano mutilata. La mano sbagliata.
Questa è l’incredibile idea di partenza dell’albo di Dylan Dog attualmente in edicola, scritto dalla giallista Barbara Baraldi e disegnato dal grande Nicola Mari.
È evidente che l’ispirazione e l’atmosfera sono mutuate dai primi film di Dario Argento (“Profondo rosso”, “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Quattro mosche di velluto grigio”) ma l’autrice infonde nella trama e nelle situazioni una vena dark che da tempo non si vedeva nel secondo fumetto italiano più venduto.
Anita Novak e la sua concorrente Rita Leigh sono due perfette dark ladies, entrambe attratte da Dylan, ma apparentemente una l’opposto dell’altra. Intorno a questo menage a trois si muovono alcuni personaggi, a volte stereotipi del mondo dell’arte, ma sempre intrisi di mistero, come l’algida Ingrid Stewart, che sembra presa di peso dal film “Suspiria”, tanto è inquietante il suo modo di fare freddo e sgarbato.
La matita e la china di Nicola Mari sono intinte nelle tenebre dell’incubo e riescono a creare qualcosa che, a sua volta, è arte, più che fumetto. Anche la tavola in cui compare la casa di Anita Novak, copia dell’imprescindibile Villa Scott di Profondo Rosso, è più che una citazione: è cinema che diventa fumetto.
Se un difetto si può trovare a questa storia, è la sua brevità, rispetto ad una trama che si apre via via come una serie di scatole cinesi e che sarebbe perfetta per un vero e proprio romanzo.
Anita Novak è forse il personaggio femminile più complesso e inquietante dell’intera storia di Dylan Dog e non può esaurirsi in questo albo. Spero che Barbara Baraldi decida, prima o poi, di raccontarcene il seguito.
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